Daniel LIBESKIND, Jüdisches Museum, Berlin-Kreuzberg, 1993-2001





Nel 1989 Libeskind vinse il concorso internazionale (a cui pervennero 165 proposte) per la progettazione dello Jüdisches Museum sull'area limitrofa al Berlin Museum (un edificio barocco realizzato nel 1735, ricostruito nel 1963). Iniziato nel 1993, l’edificio venne ultimato nel 1999, ma l'inaugurazione ufficiale è avvenuta nel 2001. Si tratta del più grande museo ebraico europeo; si sviluppa su cinque livelli per una superficie espositiva complessiva di 15.000 mq. Malgrado la sua complessità e il suo radicalismo architettonico, è diventato subito una delle immagini simbolo della nuova Berlino, e uno dei più importanti musei del Novecento. La planimetria a forma di fulmine, nata da una stella di Davide decomposta e destrutturata, è metafora della tragedia che si è abbattuta sul popolo ebraico. L'edificio, visto dall'alto, sembra una violenta ferita incisa nel cuore di Berlino. La composizione decostruttiva usata per ottenere questi risultati allegorici, è simile quella del Monumento ai caduti di Weimar (del 1921) di Gropius. La costruzione è un tipico esempio di architettura "parlante", nel senso che ai volumi e agli spazi architettonici è affidato il compito di comunicare il programma concettuale del museo, cioè la storia della vita ebraica a Berlino, tra cui la tragica vicenda dell’Olocausto. Per illustrare un tema così ostico, l'architettura è volutamente irregolare e tagliente, simile ad una complessa scultura astratta. L'edificio, che può essere esso stesso considerato un'opera d'arte in esposizione, si differenzia notevolmente dalla usuale tipologia dei musei, in quanto non risponde ad alcun criterio di funzionalità, nascendo dalla volontà di comunicare messaggi concettuali molto forti. L'esterno è interamente ricoperto da lamine metalliche, i cui riflessi argentati conferiscono all’edificio un'apparenza gelida. L’effetto dinamico ed aggressivo dell'opera è accresciuto da finestre sottili e allungate, simili a ferite oblique incise nella pelle metallica. Nella pavimentazione attorno all’edificio è presente una lunga rotaia di un binario ferroviario, allusione ai treni delle deportazioni in massa ai campi di concentramento. Il museo è un volume introverso, senza un'entrata diretta dall'esterno; l’accesso avviene dall'adiacente Berlin Museum attraverso una scala e un corridoio sotterraneo. In fondo alla scala inizia il difficile percorso della storia ebraico-tedesca, che si suddivide in due linee: una diritta, ma frammentata in vari segmenti, l’altra spigolosa e in salita. Oltre che da una complessa successione e sovrapposizione di percorsi labirintici, l’interno è strutturato in vani e corridoi di forme e misure differenziate, con scorci visivi che variano in continuazione. Lungo questi claustrofobici labirinti, le sale di esposizione sono intercalate dai "voids", cioè ambienti vuoti e impraticabili, che si trovano nei sei punti in cui le due linee principali si intersecano. Questi punti producono nel visitatore angosciosi sentimenti di oppressione, di chiusura, di distacco dal mondo esterno, del quale si percepiscono solo lontani rumori. L’unico "void" accessibile al visitatore è lo Spazio Vuoto della Memoria, che ospita lo "Shalechet", un’installazione dedicata a tutte le vittime di guerre e violenze. Si compone di 10.000 volti in acciaio che occupano tutto il pavimento. I visitatori sono costretti a camminare su questi volti e ad ascoltare il frastuono prodotto dalle lastre di metallo che sbattono l'una contro l'altra (i pianti di disperazione dei condannati). Per rendere ancora più cupi e drammatici questi percorsi, dalle pareti fuoriescono minacciose travi inclinate che incombono sulle teste dei visitatori. Lungo il percorso principale a zig-zag, le pareti sono irregolarmente "ferite" dai tagli che portano all'interno deboli fasci di luce continuamente spezzati; questi tagli permettono di guardare verso l'esterno, ma sempre in modo disagevole, come a voler esprimere ancora oggi la difficoltà di vivere da ebrei a Berlino.

IL PIANO INTERRATO: GLI ASSI
Il piano sotto terra costituisce il luogo di smistamento alle varie sezioni del museo, e in particolare ai tre differenti corridoi che simboleggiano i tre diversi destini del popolo ebraico: l'Asse dell’Olocausto, l’Asse dell’Esilio, l’Asse della Continuità. Un muro nero, simbolo dell’assenza di luce e quindi della ragione, è l’inizio dell’Asse dell’Olocausto, il percorso che conduce ad una spessa e pesante porta metallica anch’essa nera, che, quando si chiude, il suo tonfo, non lascia speranza a chi la supera. Al di là si trova la Torre dell’Olocausto, un ambiente concepito per evocare le sensazioni vissute dal deportato rinchiuso in una stanza carceraria di un campo di concentramento o in una camera crematoria. È completamente in cemento grigio, gelida d’inverno e soffocante d’estate. La torre è alta quasi 20 mt, completamente vuota e buia, in cui l’unica sorgente di luce è una piccola feritoia posta in un angolo del soffitto, da cui non è possibile vedere fuori e capire dove ci si trova. L’aria arriva da piccoli fori praticati su una parete, che richiamano quelli attraverso cui veniva immesso il gas nelle camere crematorie. Lo spazio è asfissiante, il senso di claustrofobia angosciante, dai piccoli fori tondi sulla parete provengono solo suoni attutiti e distorti. Una scaletta metallica porta al tetto, ma è irraggiungibile in quanto troppo in alto; essa è un’allusione allo "scavalcare" muri di recinzione, al desiderio di fuga verso la salvezza che ha animato i deportati nei campi di concentramento. Il secondo corridoio sotterraneo è l’Asse dell’Esilio; esso sbuca all’esterno del museo per terminare di fronte un alto muro in cemento armato che delimita una forma quadrata al cui interno si trova il Giardino dell'Esilio. È composto da 49 pilastri in cemento tutti uguali tra loro, alti 6 mt, cavi e ricolmi di terra, conclusi da alberi di ulivo che rappresentano la speranza di un ritorno in patria (ma irraggiungibile in quanto situati troppo in alto), ma anche che, come gli alberi riescono a mettere radici in spazi così impervi come la cavità di un pilastro, anche l’esiliato in una terra straniera può radicarsi e vivere in un'altra patria. Il numero dei pilastri è simbolico: 48 sta per 1948, l’anno di nascita di Israele, mentre il 49mo, quello centrale, rappresenta Berlino, ed è stata riempito con terra proveniente da Gerusalemme. Libeskind ha voluto fare in modo che il visitatore vivesse la stessa sensazione di straniamento e disagio che provano gli esiliati. Per questo motivo la disposizione dei pilastri genera una serie di percorsi molto stretti disposti su di un piano di calpestio inclinato di 6 gradi; ciò rende disagevole l’avanzare, in modo da esprimere il disagio e il disorientamento dell'esiliato in terra straniera. L’Asse della Continuità è il percorso principale del museo; è un lungo corridoio che conduce ad una scala rettilinea in pietra nera che porta alle sale espositive disposte sui tre livelli superiori. Lo stretto e alto vano della scala, tagliato da irregolari fenditure di luce, è perforato da un intrico di travi di diverse dimensioni, disposte obliquamente con varie inclinazioni, a simboleggiare le minacce sempre presenti e ricorrenti anche nel mondo contemporaneo. Ogni dettaglio della scala è studiato per provocare sensazioni di instabilità: i corrimano sono continuamente interrotti, i pilastri sono affilati come schegge in cemento armato, le finestre proseguono con le loro fenditure sui soffitti e sui pavimenti degli ambienti. L’allestimento delle sale espositive rappresenta il permanere degli ebrei in Germania nonostante l'Olocausto e l'Esilio. È ricco di oggetti e immagini di coloro che, scienziati, scrittori, musicisti e artisti, hanno legato la cultura dell'ebraismo tedesco alla storia di Berlino. (testo e immagini di Pierluigi ARSUFFI, tutti i diritti riservati)